Quello che mi interessava è questo incipit che ti toglie il fiato, che quasi ti sembra di esserci nelle notti di New York, nell'attesa, nella sfida e nella rincorsa tra i due. Leggetela, anche se è lunga perchè nemmeno ve ne accorgerete delle righe che corrono sotto i vostri occhi, bellissima!
Milano, febbraio 1963
Conosco Fellini da molti anni, ad esser precisa da quando lo incontrai a New York per la prima americana del suo film Le notti di Cabiria e diventammo un po' amici infatti andavamo spesso a mangiare le bistecche da Jack's o le caldarroste in Times Square dove si poteva anche sparare al tirassegno. A volte, poi, capitava nell'appartamento che dividevo in Greenwich Village con una ragazza di nome Priscilla per chiedermi un caffellatte: il caffellatte alleviando, non ho mai capito perché, le nostalgie della patria e la lontananza della moglie Giulietta. Entrava massaggiandosi affranto un ginocchio, "Quando son triste mi fa sempre male il ginocchio: Giulietta! Voglio Giulietta!" e Priscilla correva a vederlo come io sarei corsa per veder Greta Garbo. Inutile dire che, a quel tempo, Fellini non aveva nulla di Greta Garbo, non era il monumento ch'è oggi. Mi chiamava Pallina, si faceva chiamare Pallino, in certi casi Pallone, si abbandonava a stravaganze innocenti come piangere al bar del Plaza Hotel perché il critico del «New York Times» aveva scritto male di lui, o passare da prode. Frequentava infatti la bionda di un gangster e questi gli telefonava ogni giorno all'albergo dicendo "I will kill you", ti ammazzerò. Lui non sapeva l'inglese e rispondeva "Very well, very well": alimentando la fama di prode. La fama durò fino a quando io non gli spiegai che "I will kill you" vuol dire "Ti ammazzo". Mezz'ora dopo la spiegazione, Fellini era sopra un aereo e viaggiava alla volta di Roma.
Faceva anche altre cose come girare la notte in Wall Street, esaminare con l'aria di un ladro le banche, indurre al sospetto i poliziotti più sospettosi del mondo che finalmente gli chiesero i documenti, lo arrestarono perché non li aveva, e lo chiusero fino alle sei del mattino in una cella dove rimase a gridare l'unica frase che conoscesse in inglese: "I am Federico Fellini, famous Italian director". Alle sei del mattino un poliziotto italoamericano che aveva visto non so quante volte La strada lo udì: "Se sei davvero Fellini, esci fuori e fischia il motivo de La strada". Fellini uscì fuori e con un filo di voce, lui che non distingue una marcia da un minuetto, fischiò tutta la colonna sonora del film. Un trionfo. Con affettuosi pugni allo stomaco che lo indussero a bere brodini per almeno due settimane, i poliziotti gli chiesero scusa, lo riaccompagnarono in albergo scortandolo con motociclette ed auto blindate, lo salutarono con uno strombettare di clacson che si udì fino ad Harlem. A quel tempo Fellini era proprio simpatico.
Quando lo avvicinai per questa intervista lo era un po' meno sebbene mi salutasse, com'è sua abitudine, sollevandomi in un ardentissimo abbraccio, palpandomi dal collo ai ginocchi, giurando che se non fosse stato sposato a Giulietta avrebbe sposato subito me. "A proposito, perché non ci amammo a New York? Ah, quanto fosti cattiva a negarti!" E fingeva di scordare, s'intende, che nemmeno una volta durante le nostre scorribande a New York m'era giunto da lui un romantico cenno, una adulterina proposta che ci distraesse dai reciproci flirt. Aveva girato La dolce vita, un film per cui lo paragonavano a Shakespeare, stava per presentare Otto e mezzo, un film di cui si parlava senza averlo visto come della Divina Commedia, e pur non confessandolo era conscio della gloria che lo illuminava: il suo volto aveva un piglio quasi mussolinesco, i suoi occhi eran gravi, si capiva che non avrei più potuto chiamarlo Pallino o Pallone. Del resto, esauriti gli abbracci, me lo fece capir quasi subito. M'aveva ricevuto, disse, solo perché io ero io; aveva pochissimo tempo e l'unico modo di far l'intervista era farla mangiando. M'invitava per questo nel ristorante dove in quel momento entravamo.
Tentai di distoglierlo da un così orrendo progetto. Il magnetofono funzionava elettricamente, la presa di corrente non c'era, se c'era non era vicino alla tavola: non servì a niente. O al ristorante mentre mangiavamo o in nessun altro luogo e mai più. Cercai dunque una tavola accanto a una presa di corrente, sistemai il magnetofono fra i piatti e i bicchieri, il vassoio degli antipasti, cominciai l'intervista che subito interrotta da innumerevoli telefonate proseguì con la lievità di uno zoppo che corre; tra un rumore di forchette, bottiglie, masticazioni volgari. Riascoltandola risultavano frasi come la seguente "Con questo film ho inteso narrare... tu vuoi il prosciutto o il salame? Io piglio il salame. Quelli che parlano di dialettica metafisica... no, le pastasciutte non le voglio, fanno ingrassare. Una bistecca senza sale, ecco quello che prendo... è così stupido chiudere gli occhi al mistero... crack! din din..., il silenzio che ti circonda e diventa chiarore... le patatine! Perché non mangi le patatine?" Nessun dubbio che bisognava ripeterla. E sospirando, gemendo, Fellini rispose d'accordo: poiché io ero io sarebbe venuto l'indomani alle dieci al mio albergo. "Ma in albergo non stiamo tranquilli, Federico." "Lo saremo. Salirò in camera tua."
La mia camera all'Excelsior non era grandissima e un letto a due piazze la riempiva fino a sfiorar le pareti. Conoscendo la seduzione che i letti esercitano su Federico Fellini, per addormentarvicisi è chiaro, chiesi al manager un appartamento con salotto: "Aspetto Fellini". "Fellini, signorina Fallaci? Oh! Ma certo! Ma sì." E mi dettero l'appartamento dove avevano abitato lo scià di Persia e Soraya: con un salotto che era piuttosto un salone da ballo. Qui mi trasferii, con violentissima spesa, e alle nove e mezzo del mattino seguente ero già pronta a riceverlo: con le sigarette su un tavolo, i fiori su un altro tavolo, un cameriere pronto a portarci il caffè: "Al signor Fellini piace forte e caldo, mi raccomando". Sembravo un seduttore che aspetta la sua nuova vittima per rivelarle le meraviglie del sesso, non mancava che un poco di musica. Ma le dieci vennero e di Fellini nemmeno la traccia. Vennero anche le undici e poi mezzogiorno, l'una, le due, ma di Fellini neanche la voce. Il telefono suonò che eran le tre e mezzo passate ed io inghiottivo insieme alla mortificazione un tè coi biscotti. "Tesorino, amorino, Orianina, bambina, è da stamani che chiamo per dirti che sono in ritardo. Ma dove sei, dove vai, perché non stai mai in albergo. Be', ti perdono, e alle cinque sono da te: non un minuto più tardi."
Deposi convinta il ricevitore: era un bugiardo ma sarebbe venuto. Scesi a prendere aria. "E Fellini?" chiese con un indefinibile sorriso il portiere. "Sarà qui alle cinque" risposi spavalda. Ma le cinque giunsero e Fellini non venne. Non venne neppure alle sei, neppure alle sette, neppure alle otto, e mentre il buio calava sul salone dove aveva abitato Reza Pahlevi, sulla mia attesa delusa, sul mio prestigio schiacciato, sull'impazienza sempre più irritante del mio direttore che da Milano chiamava dicendo allora a che punto siamo, allora è venuto?, suonò liberatore il telefono. "Tesorino, amorino, Orianina, bambina..." Una complicazione imprevista gli aveva impedito, materialmente impedito, di venire da me. Ne era addolorato, confuso, ma lo sapevo che era un uomo con mille impegni. A chiunque altro avrebbe detto non posso, era già molto che non si negasse e rimandasse l'impegno. Comunque mi avrebbe visto quella sera stessa alle undici alla proiezione privata del film in via Margutta. «Guarda, Federico, che sono in ritardo, un ritardo di almeno due giorni, il direttore è arrabbiato, le pagine aperte, guarda Federico..." "Ah! Come osi dubitare di me? Come puoi pensar che non vengo?!? È offensivo, malvagio..."
Eccomi dunque, alle undici di sera, che col mio magnetofono aspetto su un portone di via Margutta Federico Fellini, famous Italian director. So che alle undici non verrà: ma lo aspetto. So che non verrà neppure a mezzanotte: ma lo aspetto. So che non verrà nemmeno all'una: ma lo aspetto. Il film, in sala di proiezione, è incominciato da un'ora, da un'ora e mezzo, da due, da due e mezzo, è finito, la gente esce, si ferma al rinfresco, è finito anche il rinfresco, la gente va via, qualcuno chiude il portone, io mi sposto sul marciapiede, continuo ad aspettare, con gli occhi che mi si chiudono, le gambe che mi si piegano, i teddy boy che mi molestano, continuo ad aspettare: finché passa un tassì e ci salgo. È ormai l'una e mezzo del mattino, rientrando dico al portiere di prenotarmi il primo aereo per Milano. In camera, cado sfinita sul letto. Mi addormento di colpo. Mi risveglio col suono del telefono e una melliflua voce che canta: "Tesorino, amorino, Orianina, bambina, ma perché non sei venuta?!" "Perché parto" rispondo. "Dovevo far le valige: il mio aereo parte domattina alle otto." "Ma è il mio aereo! Anch'io parto alle otto! Non è straordinario? Comodissimo? Parleremo in aereo." Inutile dire che perse l'aereo. Oh, il biglietto l'aveva, e anche la prenotazione. Quel volo era il suo, a Milano lo aspettavano cronisti e fotografi, perché non lo perdesse il suo produttore gli aveva mandato la Cadillac con l'autista. Ma perse l'aereo lo stesso. E quando esso giunse a Linate, i fotografi corsero alla scaletta, sulla scaletta c'ero io che scendevo e due americani dell'Oklahoma, quattro francesi di Nimes, due industriali lombardi di Concimi Chimici e Affini. Fellini giunse a mezzogiorno col mio benvenuto rilasciato a un amico: che andasse all'inferno, e ci restasse. Ammesso che anche all'inferno non fosse sgradito.
Italiani e cinesi, norvegesi e cileni, messicani e francesi, indiani e groenlandesi, popoli tutti della terra, ricordate. Non si manda all'inferno Federico Fellini sennò Federico Fellini si arrabbia, si arrabbia come una bestia e vi telefona insultando il babbo, la mamma, la zia, la nonna, i cognati, i nipoti, i cugini, e vi ricorda che lui è un grande regista, un artista, un grandissimo artista, e in virtù di questo può mancare a tutti gli appuntamenti che vuole, perdere tutti gli aerei che vuole, anzi gli aerei farebbero bene ad aspettarlo perché Federico Fellini si aspetta, ciascuno di noi è nato per aspettare Federico Fellini eccetera eccetera, amen. Ero al giornale quando telefonò e gridava tanto che tutti lo udirono mentre mi ricordava che Federico Fellini è un grande regista, un artista, un grandissimo artista, tirando fuori una voce che avrebbe fatto morir di spavento il gangster che aveva fatto morir lui di spavento, insultandomi a morte mentre immaginavo il suo piglio mussolinesco, la sua saliva che copriva come rugiada il telefono, il suo faccione sudato d'ira ed orrore per la blasfemia che avevo osato commettere. Tentai di girare con garbo gli insulti, di spiegargli quel che pensavo in quel momento di lui. Non mi udì, non mi udiva. E mentre tutti ridevano commentandone gli urli, dolcemente deposi il ricevitore.
Cominciò allora una crisi: giacché non è cattivo, lo giuro. Gli è andata male ad andar così bene, ecco tutto: nemmeno sant'Antonio resisterebbe alla sciagura di tanta fortuna, e ciò sveglia la violenza emiliana che cova sotto quell'aria di pacifico gatto. Però dopo gli dispiace moltissimo, fino alle lacrime, è capace di chiamar cento persone per dirvi che il suo cuore è straziato, che vi vuol bene come a Giulietta, che vi ha sempre voluto un gran bene, che ve ne vorrà finché resta al mondo eccetera eccetera, amen. Finché, come un ipnotizzato o un sonnambulo, vi trovate a salire sulla Cadillac che vi ha inviato per andare da lui, a percorrer la strada pensando che la colpa è vostra e non sua, a entrare in ascensore dicendovi come farà a perdonarmi, infine ad aprire la porta della sua stanza d'albergo col volto di Giuda che ha venduto Gesù. Qui trovarlo disteso come Ibn Saud sopra un letto, beato, ronfante, che dice con la sua vocetta melliflua "Tesorino, amorino, Orianina, bambina...", poi essere
stretti in un abbraccio sinistro e ascoltarlo durante una ancor più sinistra serata. L'intervista che segue Fellini volle rileggerla e la rilesse tre volte: ogni volta apportando alle sue risposte correzioni diverse, opinioni nuove, pentimenti improvvisi. È l'intervista meno genuina di tutta la serie, non una frase di essa è stata scritta senza pensarci e ripensarci. Il Codice napoleonico e la Costituzione americana costarono certo meno fatica di questo documento prezioso. Io gli volevo bene davvero a Federico Fellini. Dopo quel tragico incontro gliene voglio assai meno, ho anche smesso di dargli del tu. Lui può anche negarlo. Ma, come dice Jeanne Moreau un po' più in là, egli è un tale bugiardo che la menzogna diventa alla sua buona fede verità sacrosanta.
Faceva anche altre cose come girare la notte in Wall Street, esaminare con l'aria di un ladro le banche, indurre al sospetto i poliziotti più sospettosi del mondo che finalmente gli chiesero i documenti, lo arrestarono perché non li aveva, e lo chiusero fino alle sei del mattino in una cella dove rimase a gridare l'unica frase che conoscesse in inglese: "I am Federico Fellini, famous Italian director". Alle sei del mattino un poliziotto italoamericano che aveva visto non so quante volte La strada lo udì: "Se sei davvero Fellini, esci fuori e fischia il motivo de La strada". Fellini uscì fuori e con un filo di voce, lui che non distingue una marcia da un minuetto, fischiò tutta la colonna sonora del film. Un trionfo. Con affettuosi pugni allo stomaco che lo indussero a bere brodini per almeno due settimane, i poliziotti gli chiesero scusa, lo riaccompagnarono in albergo scortandolo con motociclette ed auto blindate, lo salutarono con uno strombettare di clacson che si udì fino ad Harlem. A quel tempo Fellini era proprio simpatico.
Quando lo avvicinai per questa intervista lo era un po' meno sebbene mi salutasse, com'è sua abitudine, sollevandomi in un ardentissimo abbraccio, palpandomi dal collo ai ginocchi, giurando che se non fosse stato sposato a Giulietta avrebbe sposato subito me. "A proposito, perché non ci amammo a New York? Ah, quanto fosti cattiva a negarti!" E fingeva di scordare, s'intende, che nemmeno una volta durante le nostre scorribande a New York m'era giunto da lui un romantico cenno, una adulterina proposta che ci distraesse dai reciproci flirt. Aveva girato La dolce vita, un film per cui lo paragonavano a Shakespeare, stava per presentare Otto e mezzo, un film di cui si parlava senza averlo visto come della Divina Commedia, e pur non confessandolo era conscio della gloria che lo illuminava: il suo volto aveva un piglio quasi mussolinesco, i suoi occhi eran gravi, si capiva che non avrei più potuto chiamarlo Pallino o Pallone. Del resto, esauriti gli abbracci, me lo fece capir quasi subito. M'aveva ricevuto, disse, solo perché io ero io; aveva pochissimo tempo e l'unico modo di far l'intervista era farla mangiando. M'invitava per questo nel ristorante dove in quel momento entravamo.
Tentai di distoglierlo da un così orrendo progetto. Il magnetofono funzionava elettricamente, la presa di corrente non c'era, se c'era non era vicino alla tavola: non servì a niente. O al ristorante mentre mangiavamo o in nessun altro luogo e mai più. Cercai dunque una tavola accanto a una presa di corrente, sistemai il magnetofono fra i piatti e i bicchieri, il vassoio degli antipasti, cominciai l'intervista che subito interrotta da innumerevoli telefonate proseguì con la lievità di uno zoppo che corre; tra un rumore di forchette, bottiglie, masticazioni volgari. Riascoltandola risultavano frasi come la seguente "Con questo film ho inteso narrare... tu vuoi il prosciutto o il salame? Io piglio il salame. Quelli che parlano di dialettica metafisica... no, le pastasciutte non le voglio, fanno ingrassare. Una bistecca senza sale, ecco quello che prendo... è così stupido chiudere gli occhi al mistero... crack! din din..., il silenzio che ti circonda e diventa chiarore... le patatine! Perché non mangi le patatine?" Nessun dubbio che bisognava ripeterla. E sospirando, gemendo, Fellini rispose d'accordo: poiché io ero io sarebbe venuto l'indomani alle dieci al mio albergo. "Ma in albergo non stiamo tranquilli, Federico." "Lo saremo. Salirò in camera tua."
La mia camera all'Excelsior non era grandissima e un letto a due piazze la riempiva fino a sfiorar le pareti. Conoscendo la seduzione che i letti esercitano su Federico Fellini, per addormentarvicisi è chiaro, chiesi al manager un appartamento con salotto: "Aspetto Fellini". "Fellini, signorina Fallaci? Oh! Ma certo! Ma sì." E mi dettero l'appartamento dove avevano abitato lo scià di Persia e Soraya: con un salotto che era piuttosto un salone da ballo. Qui mi trasferii, con violentissima spesa, e alle nove e mezzo del mattino seguente ero già pronta a riceverlo: con le sigarette su un tavolo, i fiori su un altro tavolo, un cameriere pronto a portarci il caffè: "Al signor Fellini piace forte e caldo, mi raccomando". Sembravo un seduttore che aspetta la sua nuova vittima per rivelarle le meraviglie del sesso, non mancava che un poco di musica. Ma le dieci vennero e di Fellini nemmeno la traccia. Vennero anche le undici e poi mezzogiorno, l'una, le due, ma di Fellini neanche la voce. Il telefono suonò che eran le tre e mezzo passate ed io inghiottivo insieme alla mortificazione un tè coi biscotti. "Tesorino, amorino, Orianina, bambina, è da stamani che chiamo per dirti che sono in ritardo. Ma dove sei, dove vai, perché non stai mai in albergo. Be', ti perdono, e alle cinque sono da te: non un minuto più tardi."
Deposi convinta il ricevitore: era un bugiardo ma sarebbe venuto. Scesi a prendere aria. "E Fellini?" chiese con un indefinibile sorriso il portiere. "Sarà qui alle cinque" risposi spavalda. Ma le cinque giunsero e Fellini non venne. Non venne neppure alle sei, neppure alle sette, neppure alle otto, e mentre il buio calava sul salone dove aveva abitato Reza Pahlevi, sulla mia attesa delusa, sul mio prestigio schiacciato, sull'impazienza sempre più irritante del mio direttore che da Milano chiamava dicendo allora a che punto siamo, allora è venuto?, suonò liberatore il telefono. "Tesorino, amorino, Orianina, bambina..." Una complicazione imprevista gli aveva impedito, materialmente impedito, di venire da me. Ne era addolorato, confuso, ma lo sapevo che era un uomo con mille impegni. A chiunque altro avrebbe detto non posso, era già molto che non si negasse e rimandasse l'impegno. Comunque mi avrebbe visto quella sera stessa alle undici alla proiezione privata del film in via Margutta. «Guarda, Federico, che sono in ritardo, un ritardo di almeno due giorni, il direttore è arrabbiato, le pagine aperte, guarda Federico..." "Ah! Come osi dubitare di me? Come puoi pensar che non vengo?!? È offensivo, malvagio..."
Eccomi dunque, alle undici di sera, che col mio magnetofono aspetto su un portone di via Margutta Federico Fellini, famous Italian director. So che alle undici non verrà: ma lo aspetto. So che non verrà neppure a mezzanotte: ma lo aspetto. So che non verrà nemmeno all'una: ma lo aspetto. Il film, in sala di proiezione, è incominciato da un'ora, da un'ora e mezzo, da due, da due e mezzo, è finito, la gente esce, si ferma al rinfresco, è finito anche il rinfresco, la gente va via, qualcuno chiude il portone, io mi sposto sul marciapiede, continuo ad aspettare, con gli occhi che mi si chiudono, le gambe che mi si piegano, i teddy boy che mi molestano, continuo ad aspettare: finché passa un tassì e ci salgo. È ormai l'una e mezzo del mattino, rientrando dico al portiere di prenotarmi il primo aereo per Milano. In camera, cado sfinita sul letto. Mi addormento di colpo. Mi risveglio col suono del telefono e una melliflua voce che canta: "Tesorino, amorino, Orianina, bambina, ma perché non sei venuta?!" "Perché parto" rispondo. "Dovevo far le valige: il mio aereo parte domattina alle otto." "Ma è il mio aereo! Anch'io parto alle otto! Non è straordinario? Comodissimo? Parleremo in aereo." Inutile dire che perse l'aereo. Oh, il biglietto l'aveva, e anche la prenotazione. Quel volo era il suo, a Milano lo aspettavano cronisti e fotografi, perché non lo perdesse il suo produttore gli aveva mandato la Cadillac con l'autista. Ma perse l'aereo lo stesso. E quando esso giunse a Linate, i fotografi corsero alla scaletta, sulla scaletta c'ero io che scendevo e due americani dell'Oklahoma, quattro francesi di Nimes, due industriali lombardi di Concimi Chimici e Affini. Fellini giunse a mezzogiorno col mio benvenuto rilasciato a un amico: che andasse all'inferno, e ci restasse. Ammesso che anche all'inferno non fosse sgradito.
Italiani e cinesi, norvegesi e cileni, messicani e francesi, indiani e groenlandesi, popoli tutti della terra, ricordate. Non si manda all'inferno Federico Fellini sennò Federico Fellini si arrabbia, si arrabbia come una bestia e vi telefona insultando il babbo, la mamma, la zia, la nonna, i cognati, i nipoti, i cugini, e vi ricorda che lui è un grande regista, un artista, un grandissimo artista, e in virtù di questo può mancare a tutti gli appuntamenti che vuole, perdere tutti gli aerei che vuole, anzi gli aerei farebbero bene ad aspettarlo perché Federico Fellini si aspetta, ciascuno di noi è nato per aspettare Federico Fellini eccetera eccetera, amen. Ero al giornale quando telefonò e gridava tanto che tutti lo udirono mentre mi ricordava che Federico Fellini è un grande regista, un artista, un grandissimo artista, tirando fuori una voce che avrebbe fatto morir di spavento il gangster che aveva fatto morir lui di spavento, insultandomi a morte mentre immaginavo il suo piglio mussolinesco, la sua saliva che copriva come rugiada il telefono, il suo faccione sudato d'ira ed orrore per la blasfemia che avevo osato commettere. Tentai di girare con garbo gli insulti, di spiegargli quel che pensavo in quel momento di lui. Non mi udì, non mi udiva. E mentre tutti ridevano commentandone gli urli, dolcemente deposi il ricevitore.
Cominciò allora una crisi: giacché non è cattivo, lo giuro. Gli è andata male ad andar così bene, ecco tutto: nemmeno sant'Antonio resisterebbe alla sciagura di tanta fortuna, e ciò sveglia la violenza emiliana che cova sotto quell'aria di pacifico gatto. Però dopo gli dispiace moltissimo, fino alle lacrime, è capace di chiamar cento persone per dirvi che il suo cuore è straziato, che vi vuol bene come a Giulietta, che vi ha sempre voluto un gran bene, che ve ne vorrà finché resta al mondo eccetera eccetera, amen. Finché, come un ipnotizzato o un sonnambulo, vi trovate a salire sulla Cadillac che vi ha inviato per andare da lui, a percorrer la strada pensando che la colpa è vostra e non sua, a entrare in ascensore dicendovi come farà a perdonarmi, infine ad aprire la porta della sua stanza d'albergo col volto di Giuda che ha venduto Gesù. Qui trovarlo disteso come Ibn Saud sopra un letto, beato, ronfante, che dice con la sua vocetta melliflua "Tesorino, amorino, Orianina, bambina...", poi essere
stretti in un abbraccio sinistro e ascoltarlo durante una ancor più sinistra serata. L'intervista che segue Fellini volle rileggerla e la rilesse tre volte: ogni volta apportando alle sue risposte correzioni diverse, opinioni nuove, pentimenti improvvisi. È l'intervista meno genuina di tutta la serie, non una frase di essa è stata scritta senza pensarci e ripensarci. Il Codice napoleonico e la Costituzione americana costarono certo meno fatica di questo documento prezioso. Io gli volevo bene davvero a Federico Fellini. Dopo quel tragico incontro gliene voglio assai meno, ho anche smesso di dargli del tu. Lui può anche negarlo. Ma, come dice Jeanne Moreau un po' più in là, egli è un tale bugiardo che la menzogna diventa alla sua buona fede verità sacrosanta.
Ti dico la verità, quando ho visto la lunghezza del post, ho pensato Oddio! Invece il tuo suggerimento e il pensiero di leggere uno scritto della Fallaci mi ha convinta. E' davvero un pezzo incredibile, una premessa all'intervista che non c'è più bella che io abbia mai letto! La vedo Orianina che cerca di intervistarlo al ristorante, nella suite che ha pagato profumatamente, alla proiezione e infine nell'aereo che lui perderà. Me la vedo con una sigaretta nervosa in mano. Splendido ritratto, di entrambi!
RispondiEliminaMi fa tantissimo piacere il tuo commento! Ho ritenuto fosse indispesabile fare un'introduzione data la lunghezza del testo, ma sarebbe un peccato rinunciare ad un pezzo così bello. Grazie della visita, un bacio!
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